lunedì 10 novembre 2008

Sul suicidio assistito e l’accompagnamento dei morenti

Rimettersi in quali mani?


Sul suicidio assistito e l’accompagnamento dei morenti

(Amanda Pfändler) L’aiuto al suicidio è accettato dalla gran parte degli svizzeri, eppure il tema - estremamente delicato - non cessa di far discutere. Che sia a causa di un ‘caso eccellente’, particolarmente mediatizzato, o per tutta la problematica legata al cosiddetto ‘turismo della morte’, oppure ancora per la mancanza di una specifica legge in Svizzera che regoli l’attività delle associazioni di accompagnamento alla morte, la stampa e la politica si ritrovano molto frequentemente a discutere del suicidio assistito.
Secondo un sondaggio effettuato presso mille persone in Svizzera tedesca e romanda dall’Istituto di ricerca Isopublic su mandato del mensile “reformiert.”, ben il 72 per cento degli intervistati ritiene l’aiuto al suicidio in caso di malattia incurabile “un aiuto in casi estremi” una sorta di ultima ratio, mentre il 38 per cento lo considera “un gesto d’amore verso il prossimo”.

Tutti d’accordo?
A stupire, oltre all’elevata accettazione da parte degli svizzeri di tale pratica, è il fatto che queste percentuali non cambino né a dipendenza dell’età degli intervistati, né in relazione all’appartenenza religiosa: protestanti e cattolici la pensano infatti praticamente allo stesso modo. E questo nonostante la Conferenza episcopale elvetica si sia esplicitamente detta contraria.
Un’ulteriore dimostrazione di questa ‘apertura’ nei confronti dell’aiuto al suicidio è dimostrata dal fatto che la maggior parte degli intervistati, che siano protestanti o cattolici, approva la posizione in merito della Federazione delle Chiese evangeliche in Svizzera (Fces), secondo cui le Chiese devono sia accompagnare e sostenere chi sceglie di porre fine alle proprie sofferenze, sia lottare per l’inviolabilità della vita umana e offrire tutto il conforto possibile a chi soffre.

Volontà individuale
Insomma, a prevalere, in Svizzera, è il rispetto per la volontà del singolo. Ebo Aebischer, teologo, autore del libro “Suicidio e desiderio di morire”, sottolinea come “non vi sia nulla di cristiano” nell’accanirsi a mantenere in vita una persona. Per Aebischer bisogna fare di tutto per offrire a chi medita di suicidarsi tutto il sostegno possibile affinché sappia che ci sono anche altre vie, e che la sua presenza è importante. Occorre tuttavia anche essere capaci di lasciare andare chi non vuole più restare. “Più che il dare una mano a chi desidera morire, il vero atto di compassione è tenergli la mano mentre affronta il suo cammino verso la morte”, sottolinea il teologo, membro lui stesso, tra l’altro, di Exit.

Accettare il distacco
Anche Edith Weber-Halter, infermiera che da anni accudisce malati terminali, difende il diritto alla libera scelta, anche se ciò non significa non fare di tutto affinché la persona che vuol morire sappia che il suicidio non è l’unica via. Ciononostante, afferma in base alla sua esperienza trentennale, “È atroce vedere ciò che devono subire certe persone perché i medici non sono capaci di accettare la morte dei propri pazienti o perché al pronto soccorso vengono sottoposti a ogni cura possibile per evitarne la morte”. Una possibile soluzione? Il testamento biologico - sottolinea Weber-Halter - possibilmente convalidato da un notaio, in modo che la volontà del paziente di rinunciare a una lunga agonia o a una vita da vegetale venga rispettata e soprattutto affinché non siano i parenti a dovere prendere una così difficile decisione.

Dubbi e limiti
Questo non significa tuttavia che la questione sia risolta né che l’atto in sé di togliersi la vita venga accettato tranquillamente. Basta guardare le percentuali relative al suicidio: ‘solo’ il 58 per cento degli intervistati lo ritiene “l’ultima possibilità in casi estremi”, sebbene il 57 per cento lo consideri “un diritto umano”. Quel che più stupisce è la differenza tra giovani e anziani: se infatti i secondi hanno un atteggiamento più comprensivo nei confronti della scelta di togliersi la vita, il 21 per cento degli giovani fra i 15 e i 34 anni (contro il 18 per cento del totale) considera il suicidio un peccato.

Di fronte all’inevitabile
La situazione cambia inoltre se si chiede di passare dalle parole ai fatti: alla domanda “Cosa farebbe se un suo caro le chiedesse di assisterlo mentre si somministra un medicamento letale?”, solo il 61 per cento degli intervistati ha detto che accetterebbe.
Percentuali meno nette si riscontrano anche in relazione a uno degli aspetti più controversi legati all’aiuto al suicidio: ovvero se esista il pericolo che le associazioni di accompagnamento al suicidio facciano pressione su anziani e malati terminali affinché quest’ultimi pongano fine alla propria vita e non siano quindi più un peso per la società. Anche se la maggioranza degli intervistati ritiene questi timori infondati, solo il 60 per cento pensa “sicuramente” o “piuttosto sicuramente” che ciò non accada.

Quale accompagnamento?
In realtà questo aspetto preoccupa anche coloro che quotidianamente hanno a che fare con malati terminali. Hansueli Albonico, capo della Sezione di medicina complementare dell’Ospedale regionale dell’Emmental, denuncia il fatto che, per abbattere i costi, molti nosocomi cercano di ‘scaricare’ ad altri istituti i pazienti terminali. Per Albonico sarebbe invece necessario poter offrire un accompagnamento alla morte ottimale e individuale anche in ospedale: “Tutti coloro i quali al momento del ricovero nella nostra sezione avevano espresso l’intenzione di ricorrere all’aiuto al suicidio, hanno in seguito cambiato idea" (fonte: “reformiert.”, settembre 2008)



http://www.voceevangelica.ch/index.cfm?method=articoli.main&id=8452

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