lunedì 10 novembre 2008

La tribù dispersa del Signore

REPORTAGE - UGANDA

La tribù dispersa del Signore
di Marco Trovato foto di Richard Sobol/Sipa Press/Olympia


Gli Abayudaya sono una piccola comunità ebraica fondata cento anni fa nel cuore dell’Africa equatoriale da un capo militare orgoglioso, cocciuto e visionario. I suoi seguaci, rimasti isolati per decenni e poi perseguitati dal regime di Idi Amin Dada, ora sono riusciti a tessere nuovi legami con il resto del mondo ebraico.


La terra promessa assomiglia al seno di una donna. «Prosperoso e fertile», ha precisato l’uomo che ci ha indicato la strada. Una profezia azzeccata. Il colle verdeggiante a forma di mammella troneggia sulla savana a pochi chilometri dalla città di Mbale. Sulle mappe viene segnalato col nome di Nabugoye Hill, ma per la gente del posto è semplicemente "la collina degli ebrei". «Le Sacre Scritture non ne fanno menzione», ha ammesso la nostra guida. «Ma le vie del Signore sono infinite... Specie quando penetrano nel ventre molle dell’Africa», ha aggiunto con una risata.


Un insegnante legge brani della Torah a un gruppo di bambini.

Su questa piccola altura ugandese – collegata al resto del mondo da una fragile pista piena di buche – ha trovato rifugio una sperduta tribù ebraica composta da uomini e donne dalla pelle nera come l’ebano. Si chiamano Abayudaya. Non hanno legami di sangue con Abramo e Giacobbe, né rivendicano alcuna lontana ascendenza giudaica risalente al re Davide. A differenza dei loro fratelli etiopi, i celebri Falashà, non cullano il sogno di vivere in Israele. Professano l’ebraismo in solitudine, a modo loro. Portando avanti usi e costumi che non è frequente rintracciare a queste latitudini. Pregano in sinagoghe tirate su con il fango e salutano i visitatori con un cordiale shalom. Celebrano lo Sabbath e le altre festività del calendario ebraico. Sottopongono i neonati al rito della circoncisione, otto giorni dopo la nascita, come prescritto dalla tradizione giudaica. Preparano pasti a base di manioca secondo le rigide regole della cucina kashèr. Nelle loro case custodiscono le mezuzzah, gli astucci per le pergamene con le invocazioni fondamentali dell’ebraismo, che recitano ogni giorno al mattino e alla sera.


Danze di benvenuto per i visitatori stranieri.

Seguono con cura prescrizioni religiose millenarie, ma la comunità a cui appartengono non ha neppure un secolo di vita. La loro storia è cominciata all’inizio del Novecento, quando l’Uganda era un protettorato britannico. All’epoca i soldati di Sua Maestà controllavano il territorio con l’aiuto di alcuni sovrani africani reclutati con la forza. Uno dei principali alleati degli inglesi si chiamava Semei Kakungulu. Era un valoroso comandante muganda, cresciuto alla corte di un re locale, che aveva sottomesso col suo esercito le popolazioni ribelli delle regioni orientali: un’impresa militare prestigiosa per la quale reclamava una giusta ricompensa. «Le autorità coloniali gli avevano promesso la sovranità su quella parte di territorio, in cambio del suo appoggio militare e politico. Ma Kakungulu venne vergognosamente ingannato e il suo regno venne scippato da Londra», assicurano oggi i libri che circolano nelle scuole ugandesi.

Gli storici europei sono più cauti nel ricostruire la vicenda: sorvolano sull’esistenza del presunto accordo tra il generale africano e l’amministrazione britannica, limitandosi a citare i dispacci dei funzionari coloniali che dipingevano il condottiero muganda come un «capopopolo riottoso e inaffidabile». Quel che è certo è che nel 1913 Kakungulu – che pure si era fatto convincere dai missionari inglesi a convertirsi al cristianesimo per ingraziarsi Dio e la regina – venne estromesso dal suo ruolo politico e fu destituito di ogni potere. Colpito nell’orgoglio, disgustato dall’avidità dei nuovi governanti, il fiero comandante rinunciò alle sue aspirazioni. E iniziò una nuova vita dedicata interamente alla preghiera e alla predicazione religiosa. «Deluso dall’uomo bianco, si rifugiò in un rapporto intenso con Dio», osserva lo studioso americano Michael Twaddle, autore di Kakungulu and the Creation of Uganda (Eastern African Studies, 1993). «Era come un leone ferito... Ma era ancora capace di far male».


La preghiera di Sabbath in una delle sinagoghe della comunità Abayudaya.

In effetti, nelle nuove vesti di guida spirituale, Kakungulu escogitò una micidiale vendetta personale contro i suoi ex alleati. «Non usò i fucili poiché aveva rinnegato l’uso della violenza», spiega Twaddle. «Preferì impugnare un’arma non convenzionale, in apparenza innocua ma con un potenziale distruttivo devastante». Ripudiò pubblicamente il cristianesimo – «la religione ingannevole inventata dai bianchi» – e accusò di blasfemia i conquistatori britannici: il massimo atto di spregio contro chi si fregiava di aver portato il messaggio salvifico tra i selvaggi africani. Fu un gesto inaspettato, clamoroso, di grande risonanza. Destinato a scuotere il cuore della colonia.

In breve tempo i seguaci di Kakungulu decisero di seguire le orme del capo apostata. Cominciarono a disertare le Messe domenicali, spopolarono le missioni, abbandonarono le lezioni di catechismo. Bruciarono i libri di preghiera distribuiti dai religiosi anglicani e cattolici. A migliaia si convertirono alla dottrina di una nuova setta fondata da un pastore locale, Malaki Musaiakawa, che traeva ispirazione da una lettura grossolana della Bibbia e rifiutava gran parte di ciò che era stato scritto sulla vita di Gesù di Nazaret. Il culto malakita era un originale miscuglio di precetti ebraici e di credenze africane. Proibiva il consumo della carne di maiale, permetteva i matrimoni poligamici, contemplava gli esorcismi dei guaritori tradizionali. Rifiutava l’uso di qualsiasi medicina (nel 1926 i Bamalaki si rivoltarono contro le autorità coloniali che volevano imporre una campagna di vaccinazione). Infine vietava ogni tipo di mutilazione corporale: i fedeli non potevano sottoporsi a incisioni ornamentali della pelle, né a circoncisioni rituali.


Anziani in preghiera in una sinagoga intitolata a Mosè.

Quest’ultimo divieto – a dire il vero – era piuttosto controverso. «Il patto della circoncisione è stato comandato da Dio ad Abramo», obiettò a un certo punto Kakungulu, rimproverando ai dignitari di ignorare il libro della Genesi. «Chi siamo noi per infrangere un ordine divino?». Era una domanda che non prevedeva risposte: nel 1919 il carismatico capo spirituale sottopose se stesso e i suoi figli alla circoncisione e invitò i suoi discepoli a fare lo stesso. Fu un gesto di rottura insanabile con la Chiesa malakita.

Kakungulu diede vita a una nuova dottrina fondata sulle prescrizioni dell’Antico Testamento. Salì sul monte Elgon, un vulcano inattivo della regione, «ansioso di avvicinarsi al cielo e di allontanarsi dalle miserie terrene», per poi ripiegare sulla vicina collina di Nabugoye, che ai suoi occhi ricordava il monte Sion, dove posò le fondamenta della sua congregazione. La battezzò «Kibina Kya Bayudaya Absesiga Katonda», cioè la Comunità degli ebrei che confidano nel Signore. I suoi seguaci furono chiamati semplicemente Abayudaya, che in lingua luganda significa «Ebrei» (da «Ba-Judea», «Gente della Giudea»).


Donne in preghiera.

«In verità l’ebraismo originario in Uganda era un confuso minestrone di costumi giudaici e cristiani», spiega il sudafricano Philip Briggs nel suo volume Uganda (Bradt Guide, 2007). «I fedeli, per esempio, enfatizzavano il battesimo e consideravano i loro templi "chiese ebraiche" e non "sinagoghe"». L’isolamento culturale e la mancanza di studi teologici determinavano una certa improvvisazione nella predicazione e nella liturgia. Le cose migliorano nel 1926 quando Kakungulu fece conoscenza di un mercante ebreo residente in Uganda, che accettò di insegnargli i precetti fondamentali della religione ebraica e gli procurò i primi testi sacri. Due anni dopo, il 24 novembre 1928, Kakungulu morì per una polmonite.

La storia dell’ebraismo ugandese poteva finire lì, con la scomparsa dell’illustre patriarca. Ma gli Abayudaya mantennero salda la loro identità e per decenni riuscirono ad alimentare la loro fede in solitudine. Nel 1962, all’indomani dell’indipendenza dell’Uganda, erano circa 3 mila e disponevano di trenta sinagoghe. Il loro dinamismo insidiava l’egemonia dei missionari cristiani, irritava le autorità islamiche e preoccupava persino i politici locali.


Una bambina della piccola comunità ebraica ugandese.

Ben presto sulle colline attorno alla città di Mbale cominciò a soffiare il vento dell’antisemitismo e gli Abayudaya diventarono bersagli di invettive e soprusi. Sui muri delle case comparvero scritte contro i «perfidi giudei» e gli «assassini di Cristo». L’intolleranza esplose in tutta la sua ferocia dieci anni dopo, con l’avvento di un nuovo regime politico guidato dal generale Idi Amin Dada. Appena giunto al potere con un colpo di Stato, Amin fece sterminare migliaia di dissidenti politici, intellettuali, ufficiali dell’esercito e persone comuni ritenute pericolose. Nel 1972, cacciò dal Paese 50 mila asiatici, e lo stesso anno troncò le relazioni diplomatiche con lo Stato di Israele.

Il terrificante clima politico colpì anche la piccola comunità degli Abayudaya. Amin ordinò di radere al suolo le loro sinagoghe e fece distruggere qualsiasi cosa avesse a che fare con l’ebraismo. Migliaia di discepoli di Kakungulu furono costretti a convertirsi al cristianesimo o all’islam. Solo pochi fedeli riuscirono a fuggire o a nascondersi nella boscaglia, ma i loro familiari furono massacrati per rappresaglia. «Le persecuzioni terminarono con il crollo del regime, alla fine degli anni Settanta», ricorda Israel Siriri, attuale portavoce degli Abayudaya, un uomo dallo sguardo furbo e severo che ci accoglie sulla collina di Nabugoye. «Il mondo conosce giustamente le atrocità commesse dai nazisti contro gli ebrei europei durante la Seconda guerra mondiale, ma anche noi africani abbiamo patito una brutale campagna di violenza, passata sotto silenzio... E alcune dolorose ferite del passato devono ancora cicatrizzarsi».


Donne della comunità Abayudaya portano l’acqua al villaggio.

Sono circa seicento gli ebrei ugandesi sopravvissuti alla stagione dell’odio. Nella loro minuscola enclave religiosa coltivano con orgoglio gesti e tradizioni tenuti segreti per lunghi anni. «Abbiamo una fede tenace», assicura Siriri. «Durante il periodo dell’oppressione sbirciavamo di nascosto le pagine consunte di vecchi testi di preghiera. Solo pochi anni fa siamo riusciti a procurarci la Torah, la pergamena dei nostri cinque libri sacri».

Oggi gli Abayudaya stanno cercando di rompere la condizione di solitudine che fin dalle origini ha temprato – e minacciato di estinzione – la loro comunità. «Siamo riusciti ad allacciare i primi timidi rapporti coi rappresentanti diplomatici d’Israele e attendiamo fiduciosi un riconoscimento ufficiale da parte dei rabbini ortodossi», spiega Aaron Kintu Moses, "ambasciatore" della comunità, che sfoggia sul capo una coloratissima kippah. Finora Tel Aviv – generalmente disponibile ad accogliere i discendenti delle tribù perdute per sostenere la bilancia demografica dello Stato ebraico – non ha mostrato un particolare interesse nei confronti di questa piccola comunità. In compenso, organizzazioni ebraiche americane hanno inviato in Uganda soldi e volontari. Adam Baldachin, 27 anni, attivista dell’Institute for Jewish and Community Research, proviene dal New Jersey: «Ho deciso di trascorrere qui un anno per insegnare l’ebraico ai leader della comunità. Gli Abayudaya professano una fede genuina ma un po’ rudimentale. Devono imparare la lingua dei testi sacri, un compito tutt’altro che facile».


Mucchi di scarpe lasciati all’esterno di una sinagoga.

Ruth Moss, insegnante in pensione, capelli bianchi come la neve, militante dell’organizzazione Kulanu, è arrivata da Boston un paio di mesi fa: «Mi sono innamorata di questo posto, vorrei fermarmi a lungo per aiutare i nostri fratelli ugandesi. La gente qui è ospitale, aperta al dialogo. E il rapporto con la religione è semplice e spontaneo. Meritano di essere sostenuti». Anche Diane Tobin, direttrice del Be’chol Lashon, movimento ebraico di San Francisco, non nasconde il suo entusiasmo: «Abbiamo avviato un vasto programma di aiuti per promuovere la salute e l’istruzione di centinaia di persone».

Grazie agli aiuti dei fratelli americani, ora gli Abayudaya dispongono di nuove scuole in muratura, sulle cui pareti campeggia in bella evidenza la Stella di Davide. Inoltre nei villaggi si stanno costruendo pozzi, cisterne d’acqua, internet-point, dispensari, negozi kashèr e persino una guest-house. «Facciamo solidarietà, non proselitismo: non promettiamo aiuti per conquistare nuovi fedeli», puntualizzano gli sponsor statunitensi, ma è naturale che la loro vivace attività filantropica attragga molta gente attorno alle sinagoghe. «La nostra grande famiglia si sta allargando», conferma compiaciuto Gershom Sizomu, il rabbino capo degli Abayudaya, reduce da cinque anni di studio in un collegio di New York. «Lo scorso luglio abbiamo celebrato la conversione collettiva di duecentocinquanta persone che si sono immerse nel bagno rituale ebraico», ricorda con commozione.


La Torah viene portata in processione durante la liturgia di Sabbath
nella sinagoga di Pallissa.

I fedeli vivono sparpagliati in una manciata di villaggi circondati da coltivazioni di miglio e di patate. «Ma in occasione dello Shabbat ci ritroviamo per pregare assieme e condividere un momento di comunione gioiosa», spiega Seth Jonadav, un giovane Abayudaya impegnato a spolverare la Menorah, il candelabro a sette braccia che viene acceso ogni venerdì sera. Nel giorno sacro dell’ebraismo la sinagoga si gonfia di persone di ogni età abbigliate a festa. Ad allietare le celebrazioni religiose ci pensa un gruppo di infervorati musicisti che canta inni al Signore e strimpella un paio di chitarre malmesse. «Nel 2005 siamo stati nominati per un Grammy Award», ricordano con orgoglio i giovani della band. Shalom everybody everywhere è il ritornello-tormentone della canzone che li ha portati al successo. «Un messaggio di amore fraterno che cerchiamo di vivere ogni giorno, a cominciare dal lavoro», chiarisce Joab Jonadabu Keki, responsabile di un originale kibbutz interreligioso. «Siamo una cooperativa di ottocento contadini. Ebrei, musulmani e cristiani. Lavoriamo gomito a gomito. Nel rispetto delle reciproche differenze, senza prevaricazioni».


Due bambini alla prese con lo studio dell’ebraico.

Il caffè che producono si chiama Mirembe Kawomera, cioè «Pace deliziosa». È un auspicio, un segno di speranza. Ma in questa solitaria terra promessa, incuneata nel cuore martoriato dell’Africa, suona come un messaggio profetico.

Marco Trovato




























http://www.stpauls.it/jesus/0810je/0810je52.htm

Nessun commento: